Aldo Moro, i suoi ultimi 55 giorni. Una rivoluzione senza il popolo

Novembre 27, 2024 Storia nascosta

“Ma voi davvero credete che io non sappia che farò la fine di Kennedy ?”.

Aldo Moro, autunno 1977, Università la Sapienza”


Aldo Moro, i suoi ultimi 55 giorni. Una rivoluzione senza il popolo

Aldo Moro, i suoi ultimi 55 giorni
Uno dei più gravi crimini della storia dell’Italia repubblicana…

Era un uomo come tanti che, come ogni giorno, si stava alzando all’alba.
Di professione era un fioraio e si trovava quotidianamente all’angolo tra via Fani e via Stresa.

Tuttavia, quella mattina del 16 marzo 1978, qualcosa andò storto e la sua vita cambiò per sempre.
La sera prima, qualcuno aveva tagliato le quattro gomme del furgone con cui si recava al lavoro.

Fu così costretto a rimanere a casa.
Se avesse avuto la possibilità di arrivare al lavoro con un altro mezzo, avrebbe potuto assistere di persona a uno dei più gravi crimini della storia dell’Italia repubblicana : la famosa strage di via Fani.

Ma nella Capitale, quel giorno, molte case hanno visto le persone stringere un patto con il loro destino.

Tra questi c’era il maresciallo Oreste Leonardi.
Oreste Leonardi aveva 52 anni, era di Torino, istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo di Viterbo e per 15 anni era stato guardia del corpo dell’onorevole Aldo Moro.

Come ogni giorno, si alzò presto, prese il caffè e lo portò alla moglie.
Poi, come sempre, si recò all’appuntamento con l’uomo che avrebbe dovuto scortare.
Quell’uomo era Aldo Moro, di cui era un caro amico.

Nel frattempo, in via Montalcini 8, interno 1, una donna, Laura Braghetti, salutava alcuni uomini, usciti di nascosto, e si preparava ad ascoltare nervosamente la radio.

Se l’operazione a cui stava partecipando avesse avuto un esito positivo, sarebbe stata tra le prime a saperlo.
È nell’appartamento in cui vive che verrà portato il rapito.

L’appartamento presenta una cavità, piccola, nella quale, con opportune modifiche, è stata costruita una piccola cella, al cui interno sono stati collocati una brandina, un tavolino e un bagno chimico.

Sul muro, una stella a cinque punte, che diventerà tristemente famosa, campeggia.

Un altro uomo si prepara ad andare in via Fani.
Era uno dei capi, uno di quelli che avevano preparato meticolosamente, insieme alla direzione strategica, il piano dell’agguato.

Si chiamava Franco Bonisoli, l’uomo che aveva scoperto, fuori dalla chiesa di Santa Chiara, dove Moro si recava ogni giorno per ascoltare la Messa, che la Fiat 130 su cui viaggiava non era blindata.

Non essendo un esperto di armi, si accertò per l’ennesima volta che la pistola che avrebbe utilizzato quel giorno fosse carica.
Si era esercitato per mesi in campagna, in alcune grotte.

Eppure, non si sentiva ancora pronto a livello pratico.

Nel frattempo, altre undici persone erano partite, ciascuna con un compito ben definito, in cui non era possibile alcuna improvvisazione.
Anche se le incognite che gravano sull’obiettivo sono molte.

Via Mario Fani, pochi minuti dopo le 8:30.
All’angolo con via Stresa, davanti alla fermata dell’autobus, si vedono due sagome indossare la divisa dell’Alitalia.
Nello stesso momento, dietro la siepe, quattro persone si nascondono con le armi in pugno, in attesa di poter entrare in azione.

Su un lato della strada è parcheggiata una 128 bianca con targa CD19707.
A bordo c’è Mario Moretti, leader e capo delle BR.

L’attesa del gruppo è spasmodica : qualcuno, prima di entrare in azione, “ha dovuto bere un cognacchino”, come diranno i brigatisti in uno dei processi sul caso Moro.

Provo a immaginare una scena alternativa : posizioniamoci all’interno della 130 che viaggia verso via Fani, scendendo da via Trionfale.
Al volante c’è l’agente Domenico Ricci, al suo fianco Oreste Leonardi, con la pistola d’ordinanza chiusa in una busta di plastica.

Dietro di lui c’è Aldo Moro, intento a leggere i suoi appunti : quel giorno deve presentare un progetto di governo, il primo con l’appoggio, seppur solo esterno, del Partito Comunista Italiano.

Al suo fianco ci sono le sue inseparabili borse, quelle da cui è difficile staccarsi e che in seguito alimenteranno polemiche a non finire per la loro misteriosa sparizione.

Ricci si guarda allo specchietto.
Lo fa per abitudine, sempre seguendo l’Alfetta guidata da Giulio Rivera, con il brigadiere Francesco Zizzi e la guardia Raffaele Iozzino a bordo.

Segue come un’ombra la 130, lungo la discesa di via Fani.
Quello che seguirà avviene in un istante ed è stato ricostruito con un paziente lavoro, nonostante ancora oggi ci siano delle forti perplessità.

Da via Stresa una 128 bianca fa retromarcia, mentre dal lato di via Fani la 130 con a bordo Aldo Moro frena improvvisamente.
È un attimo, ma Ricci non riesce a frenare bruscamente in tempo.

La sorpresa è assoluta, l’agguato è stato organizzato in modo straordinario.
La 130 è bloccata, per qualche istante sembra che il tempo si sia fermato : da dietro le siepi del bar Olivetti spuntano quattro persone armate, parte del commando è già all’opera per bloccare il traffico in ogni direzione.

Disperatamente, Ricci cerca di uscire dal vicolo in cui è rimasto bloccato.
È troppo tardi : una tempesta di piombo si abbatte sulle auto.

Nella 128, Moretti innesta la retromarcia, rendendo impossibile qualsiasi manovra.
Quasi contemporaneamente, cadono sotto la tempesta di piombo Leonardi e Ricci.

Iozzino no, tenta una reazione disperata, esce con la pistola in pugno, ma viene abbattuto a tradimento.
Qualcuno lo ha colpito alle spalle.

Zizzi non è morto, ma è comunque estromesso dalla lotta.

Bastano pochi minuti e tutto è finito.
Aldo Moro viene scaraventato fuori dall’auto, mentre due brigatisti lo sostengono.

Non è ferito, ma questo lo si scoprirà solo in seguito.
Qualcuno prende anche le borse di Moro.

La scena della strage non è però occupata solo dai brigatisti.
Poco più in basso, arriva con il suo motorino l’ingegner Marini, che ha il tempo di assistere alla scena, ma solo per pochi secondi.

Una Honda, su cui viaggiano due persone, esplode una raffica di mitra verso di lui, colpendo il parabrezza del motorino.
Lo shock è così profondo che Marini non riuscirà a esprimere un giudizio personale sulla dinamica degli eventi.

Qualcuno intorno si è accorto che era successo qualcosa di grave.

Aldo Moro, i suoi ultimi 55 giorni
Erano da poco passate le 9…

Erano da poco passate le 9.
Un edicolante, il cui negozio si trovava a pochi metri dal luogo dell’agguato, racconterà che suo figlio, attirato dal rumore degli spari, si precipitò immediatamente sul luogo della strage, giusto in tempo per vedersi puntare una pistola in faccia.

Giuseppe Marrazzo, inviato del Tg2, ha intervistato una signora che ha assistito alle fasi finali dell’agguato.

La donna ha dichiarato che Moro camminava accanto a un giovane, in modo tranquillo, non in modo concitato; che aveva sentito chiaramente una voce di donna ; che aveva sentito una voce gridare “lasciatemi” ; che Moro era stato caricato su una 128 blu scura, che sparì in direzione di via Trionfale.

Torniamo per un attimo alla scena dell’agguato e fermiamo con una telecamera virtuale le diverse scene che si susseguono agli occhi di ipotetici spettatori.

Raffaele Iozzino è disteso a terra con la pistola a due passi.
Il volto senza vita, lo sguardo rivolto verso il cielo, le braccia spalancate.
Ha solo 25 anni ed è nato a Casola, in provincia di Napoli, nel 1953.

Domenico Ricci giace immobile, quasi sdraiato sul corpo di Leonardi.
Aveva 42 anni ed era stato l’autista di fiducia di Moro per 20 anni.
Era nato a San Paolo di Jesi nel 1934.
Lascia la moglie e due figli.

Al suo fianco giace Oreste Leonardi, con il volto coperto di sangue.
Era nato nel 1926 a Torino.
Anche lui lascia la moglie e due figli.

Gli altri due uomini della scorta hanno destini diversi.

Francesco Zizzi, nato a Fasano nel 1948, capo equipaggio, muore durante il trasporto all’ospedale Gemelli di Roma.

Giulio Rivera, 24 anni, nato nel 1954 a Guglionesi, in provincia di Campobasso, muore sul colpo, crivellato da otto proiettili.

Cinque vite annientate in pochi secondi, da quella che i giornali chiameranno una “potenza di fuoco geometrica” e che ha sparato almeno 93 colpi, i cui bossoli sono stati ritrovati materialmente sul luogo della strage.
Ma che potevano certamente essere di più.

Infatti, poco dopo, arriva Paolo Frajese, inviato del Tg1, per documentare l’accaduto.
Lasciamo alle sue parole, drammatiche e rotte in più punti, il resoconto immediato di ciò che ha visto.

Una voce attribuita alla forte emozione, ma che in realtà era dovuta alla corsa che il giornalista aveva fatto per raggiungere il luogo dell’agguato.

“Ecco la macchina con i corpi degli agenti che facevano parte della scorta dell’on. Moro, coperti da un telo…
Vi sono due uomini sulla 130, un altro corpo è sulla macchina che seguiva.

I carabinieri stanno facendo i rilievi.
Sono quattro morti più un ferito, mi dice un collega, e l’on. Moro è stato rapito.

Sembra, mi dice ancora questo collega, che ringrazio, .. .sembra che sia stato anche ferito… guardate i colpi… puoi andare sulla portiera per piacere ?
… guardate i colpi sparati evidentemente con mitra, con mitragliatori, il corpo di un altro di questi… di questi agenti.

Ecco per terra ancora… andiamo qui a destra per piacere… i bossoli… vedete, e poi… ancora a destra… vediamo la borsa, evidentemente la borsa di Moro e il berretto di un… di un… non si capisce che cosa sia, sembra di un pilota… sembrerebbe, no, un berretto probabilmente di un metronotte, sembra forse un berretto dell’Alitalia, ma no, l’Alitalia non ha quei gradi… e il caricatore di un mitra.

Forse gli attentatori erano mascherati… può darsi… con una strana divisa !
Questa è la scena.

Ancora un altro corpo qui a destra… per piacere vieni di qua… stavo pestando inavvertitamente i bossoli… ecco il corpo di un altro, probabilmente uno dei componenti la scorta o forse un passante, non sappiamo ancora, le notizie evidentemente potranno essere raccolte solo in un secondo momento.

Il sangue… il sangue per terra, una pistola automatica, ecco… quattro corpi, quattro corpi… qui, alle dieci del mattino a via Fani. Quattro… per terra.
Ecco il documento di questa mattinata.

Non sappiamo se ci sono testimoni oculari…Proviamo a cercare”.



All’agguato hanno partecipato almeno 11 persone, più le due sulla Honda.
Le cui posizioni non saranno mai chiarite del tutto, ma che a tutti gli effetti saranno considerate partecipanti all’agguato.

Si tratta di Mario Moretti, Franco Bonisoli, Valerio Morucci, Barbara Balzerani, Raimondo Etro, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri e Rita Algranati.

Quest’ultima, all’epoca dei fatti, era la moglie di Casimirri, l’unico sfuggito all’arresto.

I due sulla moto Honda non sono mai stati identificati, anche perché per anni la loro posizione non è stata molto chiara: oggi sappiamo che si chiamavano “Peppe” e “Peppa”.
La Digos è sulle loro tracce.

La battaglia è finita.
Come già detto, restano cinque corpi senza vita e si perdono le tracce dell’onorevole Moro.

E un mucchio di bossoli.
Sono stati sparati da molte armi, una delle quali ha sparato 49 colpi, contribuendo in modo decisivo.

Uno specialista.
Questo contraddice fortemente la versione dei brigatisti, che tendono a sminuire la capacità militare del gruppo.

Nelle varie fasi processuali si ipotizzerà più volte la presenza di un killer professionista, colui che avrebbe sparato il maggior numero di colpi.
Un personaggio emblematico, il cui ruolo varia a seconda dell’ottica da cui si guarda.

Tuttavia, non ci sarà mai una certezza assoluta.

Le armi utilizzate sono disparate : una Smith & Wesson calibro 9 parabellum (8 colpi), una Beretta 52 calibro 7,65 (4 colpi), una mitragliatrice calibro 9 parabellum, una Tz 45 (5 colpi), una Beretta M12 (3 colpi), una FNA o una Stern (49 colpi).
Ben 45 colpi colpirono gli uomini della scorta ; Ricci, Rivera e Iozzino ricevettero il colpo di grazia.

Perché quel giorno, in via Fani, non ci sarebbe potuto essere scampo: era prevista solo l’eliminazione fisica, senza pietà.

Anni dopo, Sergio Zavoli ha intervistato diverse persone legate ai fatti di via Fani, ricostruendone dinamiche e personalità.

Ecco alcuni passaggi.

Sergio Zavoli :

“Ha mai pensato di potersi trovare di fronte, e magari per sua stessa scelta, al familiare di una vittima ? “

Franco Bonisoli :

“Sì, ho pensato.. ecco, questo è ancora un mio grosso problema e penso che mi rimarrà… Non è solo per quella persona, è un po’ per tutte che, direttamente o indirettamente, mi sento responsabile.

Perché, bene o male, è stata una esperienza così forte, così totalizzante, che anche quando magari non c’ero, non mi sento meno responsabile della persona che c’era…
Questo è un grosso problema, che rimane, e che ovviamente ognuno riesce ad affrontare con sé, con gli altri, in modo molto personale… ed è sicuramente, per me, più difficile.

Credo che qui non servano le frasi fatte, le dichiarazioni… non so, di principio… Si può sospendere un attimo, per favore… “

Sergio Zavoli :

“Ma lei che cosa accetterebbe di farsi dire da Eleonora Moro in un ipotetico incontro ?”

Mario Moretti:

“Tutto, tutto ciò che lei avesse eventualmente da dire…Per me può essere anche importante, mi va bene che venga ucciso il personaggio Moretti.

È un personaggio dei media, al quale io non tengo minimamente perché la persona Moretti, chi mi conosce, sa che è diversa.
Siccome non ho mire personalistiche né politiche, al momento, credo di essere come molti compagni in una posizione di riflessione, di ascolto e di osservazione attenta della realtà, più che nella posizione di chi ha qualcosa da dire sull’andamento del mondo.

Quindi, con animo molto sereno, potrei parlare anche a chiunque abbia sofferto un dolore così forte come la perdita di una persona con cui ha vissuto per tanti anni con emozioni intense…”

Testimonianze che stridono in maniera rilevante con il quadro d’insieme dell’accaduto, gettando ancora più dubbi su chi fossero davvero i reali mandanti della strage.


Aldo Moro, i suoi ultimi 55 giorni
L’esito finale del sequestro era sostanzialmente giá stato scritto dal momento dell’agguato di via Fani…

Per 55 giorni, il Paese, le istituzioni e la famiglia dell’onorevole Moro hanno vissuto un dramma collettivo, tra false speranze e disillusioni.

Tuttavia, l’esito finale del sequestro era sostanzialmente già stato scritto dal momento dell’agguato di via Fani.

Per le Brigate Rosse, l’unica logica è quella dello scontro totale: i cinque morti causati dai terroristi non possono non incidere su una eventuale trattativa con lo Stato.

E lo Stato, la sua classe politica, reagisce con fermezza, o quantomeno con quello che immediatamente si configura come un muro contro muro.

Con i brigatisti non si può trattare.

Contemporaneamente, le confederazioni sindacali annunciano uno sciopero generale, con innumerevoli manifestazioni di protesta contro i brigatisti e la loro strage.
Il Paese si mobilita e la classe politica fa quadrato.

Le ricerche si presentano subito ostiche : il commando che ha rapito Moro ha pianificato l’operazione in modo ineccepibile, o quantomeno questo è quanto si ritiene a quel tempo.
Immediatamente dopo l’agguato, le tre auto (la 128 blu, la 128 bianca e la 130) hanno raggiunto via Casale De Bustis, subito dopo via Massimi.

Da questo momento in poi, la ricostruzione è affidata esclusivamente ai brigatisti, che verranno arrestati in seguito.

Morucci dichiarerà che in piazza Madonna del Cenacolo, ad attendere l’ostaggio, c’erano una Dyane (Germano Maccari dirà invece un’Amy 8) e un furgone, nel quale Moro viene spostato e poi rinchiuso in una cassa.

Da lì raggiungerà la sua prigione, in via Montalcini 8, interno 1.
Qui lo attende Anna Laura Braghetti, che lo terrà prigioniero fino al giorno dell’esecuzione.

Quest’ultima aveva comprato l’appartamento e lo aveva intestato a sé stessa.

Per 48 ore le Br non danno notizie : l’attesa è spasmodica.
Poi, il 18 marzo, una telefonata anonima raggiunge il giornalista del Messaggero Maurizio Salticchioli.
Una voce maschile avvisa l’uomo che in Largo Argentina, nei pressi del sottopassaggio, c’è una busta rossa.

Il giornalista si reca sul posto senza avvisare la polizia e, sopra una macchina fotocopiatrice, trova la busta in questione.
All’interno c’era una foto polaroid di Moro, con cinque copie del “Comunicato n. 1”.

La foto ritrae Moro in camicia, con alle spalle lo striscione con la stella a cinque punte e la scritta Brigate Rosse.

È vivo.
Non c’è dubbio.

Un volto che appare sereno nonostante la terribile esperienza vissuta.
Un sorriso enigmatico, forse ironico, gli illumina il volto.
Ma anche tristezza.

Nel frattempo, le auto utilizzate per il sequestro e l’agguato vengono ritrovate in via Licinio Calvo.
Alla guida di una delle auto c’era Franco Bonisoli, che in seguito dichiarerà :

“Subito dopo, il gruppo di fuoco si sciolse ; ciascuno prese una strada diversa”.
Portai la 128 in via Licinio Calvo dove si era stabilito di abbandonarla.

Scesi una scalinata…questa via finisce in una lunga scalinata.
Presi un autobus che mi portava alla stazione Termini e da lì il treno per Milano”.

Nel frattempo, in un clima di grande commozione, si tengono i funerali degli agenti trucidati, mentre la polizia ritrova le auto.
Intanto Moro è sorvegliato dai suoi carcerieri : la Braghetti, Mario Moretti (che conduce gli interrogatori), Prospero Gallinari e Germano Maccari.

Sulla base delle dichiarazioni della Braghetti, oggi sappiamo che Moro visse con dignità la sua prigionia, scrivendo molto e sottomettendosi alle rigide regole dei suoi carcerieri.

Rispondeva serenamente agli interrogatori, dedicando il tempo che gli restava alla scrittura di lettere destinate all’esterno o alla stesura del suo libro di memorie, che verrà rinvenuto in forma incompleta durante una perquisizione a Milano, in via Monte Nevoso, da parte degli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Aldo Moro, i suoi ultimi 55 giorni
La sua prigione, in Via Montalcini 8, interno 1.

Nel frattempo, il governo ha approvato nuove leggi, la più importante delle quali produrrà un effetto decisivo nella lotta al terrorismo.

Si tratta della legge che impone ai proprietari di appartamenti e palazzi di segnalare alla Pubblica Sicurezza, entro 48 ore, i nomi degli inquilini e degli acquirenti.

Il 29 marzo arrivano due lettere di Moro : una è indirizzata alla moglie Eleonora e l’altra al ministro dell’Interno Francesco Cossiga.

In queste lettere, Moro prospetta per la prima volta l’ipotesi di uno scambio di prigionieri per la sua liberazione.
Tra i politici, si discute delle condizioni mentali di Moro.

In molti suppongono che lo statista, costretto a una dura coercizione, sia poco lucido o, addirittura, che sia ormai completamente nelle mani dei suoi carcerieri, tanto da essere diventato una sorta di manichino privo di volontà propria.

Si tratta chiaramente di un errore : Moro è molto lucido.
E comincia a esercitare una pressione sempre maggiore, con la sua logica stringente, ammonendo che la sua morte non porterà alcun beneficio al Paese.

Prosegue anche lo stillicidio di comunicati dei brigatisti, affidati a dichiarazioni in cui analizzano, con la loro solita terminologia, la situazione del Paese, secondo una logica estremamente faziosa che ha poco a che fare con la realtà.
L’attesa si fa sempre più angosciante.

Il 18 aprile c’è un colpo di scena.
In via Gradoli, la signora Damiano chiama i vigili del fuoco.

Nel suo appartamento ci sono infiltrazioni d’acqua provenienti dall’appartamento soprastante.
I vigili del fuoco arrivano e si accertano subito che c’è qualcosa che non va.

Dopo un rapido sopralluogo, il capo dei vigili del fuoco decide di chiamare la polizia.
Il motivo è che l’appartamento è una base della BR.

A questo punto accade qualcosa di incredibile.
La polizia si presenta, ma non di nascosto.

Arrivano a sirene spiegate e, poco dopo, in via Gradoli c’è la stessa gente che potrebbe partecipare a una normale sagra di paese.
Così facendo, si è persa la possibilità di sottoporre a sorveglianza il covo.

All’interno sono state ritrovate armi, esplosivi, carte d’identità false, divise dell’Aeronautica, radio ricetrasmittenti e la targa della 128 che ha tamponato l’auto di Moro.
A provocare l’infiltrazione è stato un danno causato dalla doccia, di tipo telefono, rimasta aperta e rivolta verso il muro, attraverso il quale l’acqua ha iniziato a infiltrarsi da dietro la vasca da bagno, lungo il muro.

Una semplice distrazione ?
Oppure, più semplicemente, qualcuno intendeva far crollare la base delle BR ?

Ma chi ?

La risposta è ancora incerta : la versione di Moretti, secondo cui si sarebbe trattato di una distrazione della Balzerani, non sta in piedi.

Aldo Moro, i suoi ultimi 55 giorni
Qualcuno intendeva far crollare la base delle BR ?

Al contrario, è più plausibile l’ipotesi secondo la quale a beneficiarne sia stato qualcuno.
E quel qualcuno non può che essere un’emanazione della regia occulta che, fin dall’organizzazione del sequestro, è rimasta oculatamente nell’ombra.

È storicamente accertata l’influenza sulle indagini di funzionari dei servizi segreti affiliati alla loggia massonica segreta Propaganda 2, o P2, come sarà chiamata in seguito, e le cui liste si sarebbero rivelate una miniera di informazioni, provocando un terremoto politico senza precedenti.

Un altro episodio degno di nota è la partecipazione di Romano Prodi a una seduta spiritica, durante la quale gli “spiriti” di La Pira e De Gasperi rivelano ai presenti, con il ben noto sistema del piattino, che Moro “potrebbe” essere prigioniero a Gradoli.

Gli investigatori vennero informati di ciò e si concentrarono sulle indagini sul paese di Gradoli, dimenticando la cosa più ovvia : cercare sull’elenco stradale Via Gradoli a Roma e non il piccolo paese in provincia.

Al di là dell’episodio particolare (probabilmente un agente dei servizi segreti passò l’informazione e, per non essere scoperto, ricorse all’espediente della seduta spiritica), l’indagine non portò a nulla.

Il 18 aprile è una data cruciale anche per un altro drammatico motivo: un comunicato delle BR (n. 7) annuncia la morte di Moro, avvenuta per suicidio, e indica nel lago della Duchessa il luogo dove cercare il corpo.

Le ricerche partono immediatamente.
L’autore è un personaggio scomodo, un membro della banda della Magliana di nome Tony Chichiarelli, che qualche anno dopo verrà misteriosamente assassinato.

Un’altra storia dai contorni oscuri e sfuggenti.

Nel frattempo, gli incontri e gli appelli per trovare una soluzione si moltiplicano.

Ma non succede nulla e Moro continua la sua disperata battaglia dall’interno della “prigione del popolo”.
Scrive lettere a tutti, da Zaccagnini a Andreotti, al presidente Leone e a Cossiga, ma anche alla moglie, la dolcissima “Noretta”.

Rimase tragicamente inascoltato.
Arriviamo così al 30 aprile, quando, verso le 16.30, arriva una telefonata a casa Moro :

“Senta, io sono uno di quelli che ha qualcosa a che fare con suo padre.
Devo farle un’ultima comunicazione.

Noi facciamo questa telefonata per puro scrupolo, perché suo padre insiste nel dire che siete stati un po’ ingannati e probabilmente state ragionando su un equivoco.

Finora avete fatto tutte cose che non servono assolutamente a niente.

Noi crediamo invece che ormai i giochi siano fatti e abbiamo già preso una decisione.
Nelle prossime ore non potremo far altro che eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato n. 8.

Quindi crediamo solo questo, che sia possibile un intervento di Zaccagnini, immediato, e chiarificatore in questo senso ; se ciò non avviene, rendetevi conto che noi non potremo far altro che questo.

Mi capisce ?
Mi ha capito esattamente ?”

“Sì, l’ho capita benissimo”.

“Ecco, e quindi è possibile solo questo ; lo abbiamo fatto semplicemente per scrupolo, nel senso che, sa, una condanna a morte non è una cosa che si possa prendere così alla leggera neanche da parte nostra.
Noi siamo disposti a sopportare le responsabilità che ci competono e vorremo appunto… siccome la gente crede che non siete intervenuti direttamente perché mal consigliati… ”

“Ma noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto fare, che ci lasciano fare, perché ci tengono proprio prigionieri…”

“No, il problema è politico, quindi a questo punto deve intervenire la Democrazia cristiana.
Abbiamo insistito moltissimo su questo, perché è l’unica maniera per arrivare eventualmente a una trattativa.

Se questo non avviene, mi ascolti… guardi, non posso discutere, non sono autorizzato a farlo, devo semplicemente farle questa comunicazione.

Solo un intervento diretto, immediato e chiarificatore, preciso, di Zaccagnini, può modificare la situazione ; noi abbiamo già preso la decisione, nelle prossime ore accadrà l’inevitabile, non possiamo fare altrimenti.

Non ho nient’altro da dirle”.

Parlava Mario Moretti.

La situazione appare ormai sempre più drammatica e Moro torna a scrivere.
La sua lettera alla DC è piena di angosciante consapevolezza.

Fa il nome di tutto il gruppo dirigente, senza esclusione di colpi, definendolo corrotto.
Scrive anche una lettera triste e drammatica alla compagna di sempre, Eleonora.

Aldo Moro, i suoi ultimi 55 giorni
Il dramma si trasforma in epilogo…

Un testamento spirituale.

Il dramma si trasforma in epilogo.
Nella “prigione del popolo”, Moro viene rasato e vestito.

Gli dicono che sta per essere liberato.
Lo portano in garage.

Lo fanno sedere nel bagagliaio di una macchina.
Moretti lo copre, poi punta il mitra Skorpion e spara.

Da distanza ravvicinata.

La mitragliatrice si inceppa e lui usa la pistola.
Il corpo senza vita giace nella Renault 4 rossa.

Il dramma è compiuto.

Per depistare le indagini, le BR mettono della sabbia nei risvolti dei pantaloni, coprono il corpo con un telo e trasportano l’auto e il suo macabro carico in via Caetani, dove verrà ritrovato in seguito a una telefonata che Morucci farà a casa del professor Tritto, amico di Moro.

“E’ il professor Franco Tritto ?”

“Chi parla ?”

“Il dottor Nicolai.

“Chi, Nicolai ?”

“È lei il professor Franco Tritto ?”

“Sì, ma io voglio sapere chi parla”.

“Brigate rosse.
Ha capito ?”

“Sì”.

“Adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro.
Mi sente ?”

“Che devo fare ?
Se può ripetere…”

“Non posso ripetere, guardi.
Allora, lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani.
Via Caetani.

Lì c’è una Renault 4 rossa.
I primi numeri dì targa sono N5”.

La cronaca di quest’ultima parte è stata ridotta all’osso.
Deliberatamente.

Perché non c’è nulla di più sconvolgente che ipotizzare la morte di un uomo solo, colpevole solo di essere diventato una pedina di un gioco spietato.
La morte di Moro, come ho detto all’inizio, rappresenta comunque una sconfitta per le Brigate Rosse.

Fautori di una rivoluzione senza il popolo, fatta ai suoi danni.

Le cinque vittime di via Fani, infatti, appartenevano al popolo, anche se vennero identificate come servi del potere.
Così come la morte di Moro, uomo del dialogo, precursore di un nuovo sistema politico e fautore di una democrazia più completa, sarebbe diventata un duro colpo per le Brigate Rosse.

La geometrica potenza di fuoco, la capacità di tenere in scacco l’apparato di polizia dello Stato e il senso di invincibilità svaniranno presto.

Uno dopo l’altro, i brigatisti che hanno ucciso Moro e la sua scorta saranno catturati e processati.
Tuttavia, le domande sulle tante stranezze, sui depistaggi e anche su molti interrogativi riguardanti il reale svolgimento della storia non cesseranno.

D’altronde, si sa, l’Italia è sempre stata prodiga di storie misteriose e torbide.


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