Primavera 1998.
Mi sforzavo di far credere a me stessa che tutto fosse normale.
Purtroppo non era così.
Dopo aver lottato strenuamente, la situazione iniziò a peggiorare.
Una lotta inutile.
Non c’era niente da fare.
La malattia di mia mamma era incurabile.
L’illusione della prima guarigione, seguita dallo scoramento alla notizia che non era così.
Le speranze si affievolivano giorno dopo giorno.
La diagnosi era impietosa.
Come era già capitato molte volte nella mia vita, giocavo a scacchi per dimenticare.
E se fino a quel momento il mio equilibrio interiore aveva retto egregiamente, improvvisamente iniziarono a manifestarsi i primi segni di stress.
In uno dei rari momenti di pace, giocai la seguente partita.
Riguardandola ora, si può cogliere tutto lo stato d’animo di quel periodo.
Ero in testa a un torneo tutto sommato giocato dignitosamente, un pari sarebbe bastato.
Ma dovevo conquistarlo sulla scacchiera, non ottenerlo per grazia divina.
Invece cosa faccio ?
Provo a cambiare tutti i pezzi per ottenere una facile patta.
Nulla di più sbagliato : la mia posizione, infatti, peggiorava lentamente, ero su un piano inclinato e non me ne accorgevo.
Naturalmente, in questa situazione, a un certo punto una terribile svista chiude il conto e la partita.
Tutte le mosse giocate successivamente sono solo la dimostrazione che, testardamente, non si vuole ammettere di avere perso e che si continua solo nella speranza di un miracolo che naturalmente non arriverà mai.
1.e4 c5 2.Nf3 e6 3.d4 cxd4 4.Nxd4 a6 5.Bd3 Nc6 6.Nxc6 dxc6 7.0–0 e5 8.Nd2 Bd6
9.Nc4 Bc7 10.Qf3?!
10.Qe2 Nf6 11.Bg5 con leggero vantaggio del B
